Quel pomeriggio la stanza era piena di timide creature... (V.Woolf)
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IL POSTO PIÙ SICURO
:::Stefania Palmieri:::prima classificata
Un cassetto chiuso male.
Quanto basta per chiedersi cos’è rimasto di lei.
Quant’era grande quella fessura?
Forse
due tre respiri un’unghia spezzata-faceva sempre male e rovinava lo smalto rosso
(n°44)-
grande abbastanza come lo spazio tra il davanzale della finestra dei suoi 16anni e il vuoto - era un ottimo modo per rischiare di cadere giù e asciugare i capelli evitando il phon-
o come la distanza tra il letto di sua nonna e il pavimento,
i cappotti appesi all’attaccapanni di legno e il muro
tutti nascondigli poco sicuri, alla fine riuscivano sempre a trovarla.
Aveva dimenticato il ripostiglio in corridoio,
una porta bianco sporco a un’altezza incredibile da terra.
Una porta sospesa senza scale per arrivarci
(prima portava da qualche parte, ma non aveva mai capito come).
Il posto più sicuro,
tra pentole e conserve, bottiglie - tante- i panettoni accumulati negli anni che nessuno aveva più mangiato, la scatola degli attrezzi quella da non aprire che poi se ne accorgevano, e i quotidiani già letti.
Se la pila si faceva alta, era sicuramente passato molto tempo.
Poi un giorno suo padre smise di comprarli.
Quel giorno tornò a casa senza baffi.
La faccia di suo padre non era più sua, e dovette rassegnarsi al fatto che le cose cambiano, ma probabilmente m a i fino in fondo.
Sul fondo del cassetto i tarli disegnavano la loro vita e se facevi silenzio riuscivi a sentirli:
un grattare
leggero
polveroso
infallibile segnale: il cassetto chiude un comò t r o p p o vecchio.
E a lei le “cose vecchie” piacciono. Tutte.
Le scale azzurre erano l’attesa che la separava dalla soffitta.
Poi la tenda arancione a fiori verdi e bianchi.
Poi le ante dell’armadio dure ad aprirsi e dentro sua zia,
i suoi vestiti ben conservati: il completo di velluto verde, gonna e gilet, il gessato modello maschile, le cravatte di suo padre, il giubbino di pelle color cuoio- ha una macchia sul gomito e le tarme hanno fatto il loro dovere sul bordo in lana- il vestito blu a pois …..
li provava tutti, attenta a rimetterli a posto, con lo stesso ordine, per non sgualcire ricordi che non le appartenevano e provava a immaginarsela sua zia con quei vestiti addosso, bella, viva come non lo era più stata da quei vestiti in poi.
E quell’odore era una droga.
L’odore dell’armadio chiuso, l’odore dei segreti, dell’amore e del lutto. Del tempo passato, delle attese stagnanti, delle strade sbagliate.
Ritagli di vita ben piegati come lettere sul fondo di un cassetto.
Le lettere dentro la scatola dentro il cassetto
Chissà perché non si decideva a rileggerle.
Così come non riusciva a decidere cosa salvare di quella casa.
Le stanze mutilate, la guardavano dritto negli occhi e
più in fondo ( più a fondo).
Dentro.
Dove non c’era posto o ce n’era tanto ma mal diviso.
Perché non era mai riuscita a dare il giusto posto alle cose e all’amore e ai ricordi. Si confondeva tutto, si ammassava e nascondeva e formava pile altissime e lei rischiava sempre di trovarsi sotto quando sarebbero crollate.
Perché sarebbe successo.
Prima o poi.
Fece un ultimo giro per La Casa,
appese il cappotto all’attaccapanni di legno all’ingresso,
si sedette su ogni sedia
guardò fuori da ogni finestra,
contò i mattoni del pavimento e
i quadri rimasti appesi
- li aveva dipinti sua madre-
si sdraiò su tutti i letti.
Poi andò verso la cucina,
prese la sua tazza preferita, quella alta col manico grande.
Bevve il suo the, con una fetta di limone intera, e due cucchiai grandi di zucchero, le piaceva dolce.
Usò il cucchiaino venezuelano per mescolarlo,
un cucchiaino inspiegabilmente piccolo appartenuto a quella donna sconosciuta che era stata sua nonna
la donna in vestito a strisce, bianconero, che le sorride da una foto formato 5x8cm
club puerto azul
qualche goccia aveva bagnato il tavolo .
Le aveva guardate asciugarsi e lasciare cerchi opachi, appena visibili.
Forse non c’era niente da salvare, o forse aveva già salvato tutto quanto le servisse.
“polvere e nient' altro che polvere ecco soltanto che cosa rimane...”
La voce di sua nonna dal piano inferiore,
la voce di sua nonna prima che smettesse di canticchiare la mattina e
aprirle gli occhi con l’odore del sugo e un po’ di polvere
e i passi veloci di sua madre.
La domenica mattina.
Si alzò dal tavolo
-la tazza e il cucchiaino sono ancora lì, dov’erano rimasti dopo l’ultimo sorso-
tornò lenta
verso l’ingresso e l’attaccapanni in legno,
prese il cappotto
lo indossò
lasciò aperte tutte le finestre
e andò via dalla sua casa.
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RICETTE INEDITE
:::Loredana Rosa:::
Samanta Aperitivo analcolico
<
La sua infanzia era stata così, vette e abissi, altalena di allegria e angoscia, niente giorni piatti, un po' noiosi, inutili da ricordare ma che sono la gran parte della vita delle persone. Sua madre era un'alcolista, sempre troppo allegra o troppo triste; a volte passava ore a pettinarla, vestirla, coccolarla, poi per giorni non la guardava nemmeno, come se non esistesse.
Quei pomeriggi di bel tempo dopo la scuola, mangiava qualcosa, lasciava la madre a letto, chiusa nella sua camera e scendeva in cortile, giocava con le altre bambine e sperava che non succedesse "Oggi no... per favore... almeno oggi no" e invece succedeva, sua madre la chiamava, doveva andare a comprarle il brandy o l'amaro o il gin. Faceva finta di non sentirla, ma lei non smetteva, non smetteva mai, finché non si arrendeva e saliva in casa. Si vergognava tantissimo, non sopportava lo sguardo del salumiere, i "poverina" sussurrati scuotendo la testa dalle donne del quartiere che stavano facendo la spesa.
Andava sempre peggio e le assenze di suo padre che lavorava all'estero erano sempre più lunghe e una mattina, tornando da scuola, aveva undici anni, trovò sua madre ancora a letto, provò a chiamarla, a scuoterla, ma lei non si svegliava, fu sommersa dall'orrore, era colpa sua, era per tutte le volte che l'aveva odiata, per tutte le volte che aveva sperato che non si svegliasse più, che non la chiamasse da dietro le serrande. Finalmente ritrovò la voce e la forza, chiamò aiuto e l'aiuto arrivò.
Da anni ormai frequentavano un Club di alcolisti in trattamento e sua madre non beveva più, era più quieta, suo padre lavorava vicino casa e tornava tutte le sere.
Si stiracchiò sotto le coperte pensando all'indomani, sarebbe stata una bella giornata, sarebbe andata a pranzo dai suoi genitori insieme al suo fidanzato, voleva che lo conoscessero perché presto sarebbero andati a vivere insieme; sapeva che sua madre avrebbe dato il meglio di se in cucina, che suo padre avrebbe avuto gli occhi lucidi e che lei avrebbe preparato il suo famoso aperitivo analcolico.
Aperitivo analcolico
Succo d'ananas senza zucchero 3 parti
acqua tonica 1 parte
gassosa 1 parte
bitter ½ parte
L'aperitivo va preparato al momento di servirlo, tutti gli ingredienti devono essere ben freddi, versateli in una caraffa, mescolate rapidamente e servite. Non usate mai il ghiaccio, questo aperitivo non tollera diluizioni, d'estate potete usare una caraffa con "l'anima" ghiacciata. Se preferite potete sostituire il succo d'ananas con succo d'arancia sempre senza zucchero.
Dalla pianura Riso all'arancia
Fece ciao con la mano ai nipoti che si erano voltati per chiudere il cancello della staccionata. Dalla vetrata del soggiorno alzò gli occhi sulle grandi vette bianche, poi li abbassò verso il fondo della valle e pensò che quel dovere alzare e abbassare gli occhi e anche la testa tanto erano l'alto e il basso, l'impossibilità di abbracciare tutto in un unico sguardo fermo era... cercò la parola... faticoso ecco. Non che il panorama non fosse bellissimo, ma era un panorama turistico, non era il suo. Con il tempo si sarebbe abituata, forse. Non ci aveva mai pensato, non immaginava di doverci pensare. Era venuta in quel paese oltre il confine, e non era la prima volta, perché il figlio e la nuora dovevano allontanarsi per motivi di lavoro per un periodo più lungo del solito, così si era offerta di badare ai nipoti, non più bambini ma non ancora abbastanza grandi da restare da soli. Il giorno del suo arrivo il figlio le ava detto (scherzando?): "Questa è la prova generale..." si riferiva al fatto che prima o poi avrebbe dovuto andare a vivere con loro. Erano tanti anni che glielo chiedeva e anche la nuora, alla quale voleva bene come a una figlia, insisteva: "Ma cosa fai ancora lì...".
Era nata e cresciuta in una terra di pianura, acque basse, argini dritti, biciclette, non potevi guardare lontano ma quello che ti stava intorno lo vedevi tutto e bene, per guardare lontano gli abitanti di quei luoghi avevano costruito delle torri, perciò il "lontano" non era un confuso spazio distante e indifferente ma un "altro" dal quale poteva venire il bene e il male. Pochi anni dopo il matrimonio suo marito, funzionario dello Stato, fu mandato a sud, un po' per punizione e un po' per punire e lei, naturalmente, lo seguì. Arrivò in un'altra pianura molto diversa dalla sua, più piccola ma molto bella, una distesa di aranci, piccoli alberi intensi e fitti, immobili e silenziosi, le pianure non hanno vento e gli aranceti non stormiscono. Erano rimasti li, anche dopo che il figlio era andato per la sua strada, tanti altri anni tranquilli, i primi giorni d'estate segnati dall'odore della zagara e l'inverno colorato dalle arance che occhieggiavano dagli alberi o riempivano i camion, i furgoncini, le carrette. Lei era rimasta anche dopo la morte del marito in quel paese tiepido dove conosceva tutti e tutti la conoscevano.
Si rendeva conto che il figlio aveva ragione, saperla lontana e ormai vecchia lo angustiava ed era questa angustia che le dava pensiero, fosse stato per lei avrebbe continuato così fino alla fine, le "vacanze" con loro e la sua vita tra gli aranci e la gente che ancora la chiamava signora maestra. Ma poteva lei resistere agli occhi del figlio che la vedevano morire sola? Poteva sopportare il peso di quel pensiero doloroso e colpevole di cui i suoi cari si gravavano? Non avrebbe potuto, non per molto ancora. Questa tra i monti sarebbe stata la sua ultima casa, nel cuore le sue due pianure, il riso e la arance.
Riso all'arancia
Riso 80 g
preparato per soffritto 1 cucchiaio (se surgelato) 1 cucchiaino (se disidratato)
arancia ½
granulare per brodo ½ cucchiaino
olio o burro (come preferite) 1 cucchiaio 1 cucchiaino
prezzemolo tritato 1 cucchiaino
noce moscata q.b.
pepe nero q.b.
sale q.b.
Questa è la dose per una persona. Fate bollire il riso con abbondante sale, quando è ancora molto al dente, scolatelo e sciacquatelo più volte in acqua fredda in modo che i chicchi siano ben separati (potete prepararlo anche il giorno prima); preparate il soffritto come indicato nella confezione aggiungendo una spolverata di pepe e di noce moscata; grattugiate la buccia dell'arancia e spremetene il succo, mischiateli insieme; in due cucchiai di acqua calda sciogliete il granulare e appena il soffritto è pronto versatevi il riso, rigiratelo per due minuti quindi unite il brodino, il succo dell'arancia con la buccia grattugiata e il prezzemolo tritato. Fate asciugare a fuoco vivace per qualche minuto. Servite subito.
Cuore di nonna Polpettone americano
Il suo ricordo più antico era l'immagine di nonna Bice che si chinava tutta un sorriso e allargando le braccia esclamava "Cuore di nonna!". Lei correva verso quel sorriso immenso, tra quelle braccia che l'avrebbero sollevata da terra facendola volare in alto e in tondo per poi farla atterrare in un abbraccio profumato e dolce, tenero e sicuro.
Nonna Bice era stata una ragazza madre. Alla fine della guerra aveva amato un soldato americano che si chiamava Joe, alto, biondo e bellissimo. Tra l'euforia della pace, la cioccolata e il boogie woogie, si era persa tra le braccia di quell' uomo sconosciuto che parlava una lingua ignota e aveva una risata forte e sincera.
La sua storia era durata poco, una mattina lei e sua madre erano state travolte dai resti di un palazzo come tanti ancora pericolosamente in piedi. Sua madre era morta e Bice era rimasta tre mesi in ospedale. Fu una suora con gli occhi tristi a dirle che era incinta e che se non voleva tenere il bambino avrebbe potuto darlo in adozione.
Quando uscì dall'ospedale andò alla caserma dove aveva accompagnato Joe l'ultima volta che si erano visti, quei soldati erano andati via, ne erano arrivati altri ma nessuno sapeva di lei e di Joe. Si rese conto di non conoscere il suo cognome e di non sapere da quale città americana venisse. Era una ragazza intelligente e forte, smise di cercare Joe e decise di tenere il bambino.
Lei era figlia di quel bambino che crescendo era diventato alto, biondo e bellissimo come suo padre e si chiamava Bice come sua nonna. Per lei nonna Bice, come già per suo figlio, inventava storie bellissime che raccontavano di Joe e dell'America, l'uno e l'altra inventate con il poco che aveva visto al cinema e il molto che aveva sognato nei pochi momenti di ozio che aveva potuto permettersi.
Il giorno del suo compleanno Bice riceveva dalla nonna un regalo particolare: un cibo che non aveva mai mangiato. Poteva essere una pietanza o pasta, riso, dolce, qualsiasi cosa ma rigorosamente inedita. Non accadde mai che i piatti inediti di nonna Bice fossero immangiabili, potevano essere più o meno buoni , potevano piacere a chi più a chi meno, ma la sorpresa era assicurata e il divertimento pure. Finito di gustarli Bice doveva dargli un nome e così era nato un libricino di ricette inventate solo per lei e che avevano i nomi che lei aveva trovato per loro in un certame con gli altri componenti della famiglia che la vedeva sempre e comunque vincitrice.
Bice aveva ventidue anni quando la nonna morì e sino al suo ultimo compleanno aveva ricevuto e gustato la sua ricetta inedita, così aspettò il giorno in cui ricorreva il compleanno della nonna, invitò le persone che l'avevano amata e offrì loro una ricetta inedita che chiamò: Polpettone americano.
Polpettone americano
Tritato misto di vitello e maiale 1 kg
mortadella (a dadini o a fettine sminuzzate) 200 g
parmigiano grattugiato 200 g
emmental o tuma (a dadini) 200 g
uova 6
fiocchi di patate (preparato per purea) 1 busta
prezzemolo tritato una manciata
pomodori a pezzettoni (se pelati schiacciarli bene) 1 scatola
senape 3 cucchiai (o più a piacere)
ketchup 4 cucchiai (o più a piacere)
aromi: curry, coriandolo, zenzero, cardamomo la punta di un cucchiaino di ciasuno
sale e pepe q. b.
latte (circa metà della dose prevista per acqua e latte dei fiocchi) q. b.
Queste quantità valgono per una festa molto grande, se la vostra festa non lo è riducete le dosi del 50 %. Impastate tutto insieme, aggiungendo il latte poco per volta in modo da dare ai fiocchi il tempo di assorbirlo. Fate riposare l'impasto per 15 minuti e disponetelo in stampi da plum-cake o altre teglie. Infornate in forno molto caldo per 40 minuti. Potete servirlo caldo o freddo.
Amore a prima vista? Grande coppa di natale
Gironzolava nel grande centro commerciale in mezzo a nugoli di persone inseguite dal natale. La maggior parte della gente pensa che chi va in giro piano e senza pacchetti, chi non saetta intorno lo sguardo rapace per ghermire l'oggetto più nuovo o costoso o conveniente , nei giorni che precedono il 25 dicembre, è una persona sola e infelice, lei era sola ma non era infelice. Del natale si godeva la dolcezza dei ricordi e il quieto riposo dal lavoro, la festa delle luci e degli addobbi, la prima neve se c'era. Da tempo aveva smesso l'obbligo di dire si agli amici che la invitavano: <
In mezzo alla folla un uomo, un po' smarrito, un po' confuso, si guardava intorno, sembrava sentire il peso dei pacchetti che non aveva, l'assenza delle persone che non c'erano. Era il suo primo natale da solo, i figli ormai grandi, la moglie diventata ex, smarrita la famiglia d'origine, gli amici tenuti lontano dall'imbarazzo della separazione.
Che si notassero era quasi inevitabile, fermi in quel fluire inarrestabile, non allettati dalle merci, estranei al rito dei regali a tutti i costi. Erano entrambi “beneducati”, nessuno dei due si era mai accompagnato con sconosciuti, non avevano “avventure”, non seducevano e non erano sedotti, ma quella volta, chissà come, chissà perché, andarono l'una incontro all'altro senza imbarazzo, senza reticenza, un sorriso e si presero per mano e poi via a casa di lei, senza chiedersi nulla, senza promettersi nulla, paghi del loro accompagnarsi. Ci sarebbe stato tempo per raccontarsi, forse o forse no. Il natale era ancora tutto lì.
Grande coppa di natale
Pandoro 1 fetta
crema pasticcera ½ litro
pere 3
copertura di cioccolata q.b.
"bagna" q.b.
Queste dosi servono per preparare sei coppe. Tagliate le pere a metà, togliete il torsolo e sbucciatele, mettete in una casseruola (anche una padella profonda va bene) 6 cucchiai d'acqua e 6 cucchiaini di zucchero, deponetevi le mezze pere senza sovrapporle, fatele cuocere coperte a fuoco molto dolce per 15 minuti (se non avete pregiudizi potete usare delle mezze pere sciroppate in scatola). Preparate la crema pasticcera nel modo che preferite e anche la copertura di cioccolata (comunque per questa ecco una buona dose: 125 g di cioccolata fondente, 20 g di burro, ½ bicchiere di latte; mettete tutto insieme e fate sciogliere a bagnomaria o nel microonde; amalgamate bene e tenete in caldo). Per la bagna potete usare lo sciroppo delle pere con qualche goccia di maraschino o prepararne dell'altro con le stesse dosi. Tagliate il pandoro in due fette sottili e ciascuna in tre pezzi, prendete delle coppe piuttosto grandi, ponete al fondo di ognuna un pezzo di pandoro, bagnatelo, sovrapponete un abbondante strato di crema pasticcera, quindi una mezza pera e la copertura di cioccolata. Fatele riposare per qualche ora in frigorifero ma rimettetele fuori mezz'ora prima di servirle.
Piccolina Panna cotta
Guardava la sua bambina che dormiva nella culla, ne aspirava il profumo, si lasciava sommergere dal silenzio. Il parto era stato difficile, il dolore arrivava improvviso, violento e incontrollabile, si sentiva sola e impotente, quello che sapeva sul parto era stato spazzato via da tutta quella sofferenza. Non c'era niente di "naturale", nessuna partecipazione, nessuna consapevolezza, voleva che tutto finisse, voleva dormire, spegnere le luci, soffocare il rumore. Nei pochi secondi di tregua tra una doglia e l'altra riusciva a formulare un solo pensiero, sempre lo stesso: non potrò sopportarlo ancora, non c'è la farò. Invece c'è l'aveva fatta, in quell'ultimo spasimo sua figlia era nata, il dolore era finito e lei era tornata per riprendersi quella parte di lei che l'aveva lasciata e trovare "l'altra", quella creatura nuova, sconosciuta e sorprendente. Ancora un attimo d'angoscia, una vecchia storia di famiglia di una bimba nata senza dita, ma il suo compagno l'aveva rassicurata, è tutto a posto. I giorni seguenti erano stati sconvolti dallo stupore, dall'amore, dall'andirivieni e dall'affetto di parenti e amici, adesso, sola in casa con la sua meravigliosa bambina si abbandonava all'incanto di quella infinita dolcezza.
Poi d'improvviso un grande turbamento la invase, avrebbe voluto prenderla dalla culla, stringerla tra le braccia, proteggerla; fu colta da un pianto silenzioso, tragico. Come sarebbe stata la vita della sua piccolina, cosa le riservava il futuro, come avrebbe potuto proteggerla, aiutarla, salvarla dal dolore, dall'angoscia, dall'oscurità. Non avrebbe potuto, non sempre, non contro il dolore che lei stessa si sarebbe inflitta, non contro il dolore che le sarebbe venuto dall'amore. Non sapeva che fare, a chi chiedere aiuto, sola davanti a quella culla, tremava.
La bambina strinse i pugni, mosse la testa e aprì gli occhi, sembrava smarrita, la bocca già atteggiata al pianto, lei dimenticò la sua angoscia, tese le braccia e la strinse piano, sfiorandola con un bacio, la bambina si quietò e con un sospiro riprese a dormire. Non la rimise nella culla, se la tenne stretta e anche lei si quietò. Non poteva conoscere il futuro di sua figlia, non poteva impedirle di soffrire, di sbagliare, di pagare, ma sapeva che qualunque cosa fosse accaduta lei sarebbe stata dalla sua parte, il suo amore non sarebbe mai venuto meno, la perdonava sin d'ora, si sarebbe fatta carico dei suoi errori, avrebbe espiato con lei, l'avrebbe lasciata andare per la sua strada caricandola solo di un piccolo bagaglio: la certezza che comunque lei, sua madre, ci sarebbe stata sempre per lei, sua figlia.
Panna cotta
Latte fresco intero ½ litro
panna fresca ½ litro
torta gel Cammeo 1 bustina
zucchero 4 cucchiai
caramello q. b.
Questa ricetta "segreta" mi è stata data in segno di grande amicizia e stima da una persona che ricorderò sempre, per la sua grazia, per la sua dolcezza e per la sua bontà.
Per prima cosa predisponete il contenitore nel quale la panna cotta dovrà raffreddarsi, deve essere di metallo, non antiaderente e con il fondo liscio, dovete posizionarlo attentamente su di una superficie che possa sopportare il calore, un buon poggia pentole andrà bene, quindi preparate il caramello: in un pentolino d'acciaio con il manico lungo, in modo che possiate tenerlo senza bruciarvi, versate cinque cucchiai colmi di zucchero, ponetelo sul fuoco e, sempre mescolando con un cucchiaio d'acciaio, fatelo sciogliere e imbiondire sino a che non avrà raggiunto quel colore bruno dorato e quell'aroma di bruciato tipico del caramello. Non preoccupatevi di bruciarlo troppo perché quando sarà pronto comincerà a schiumare, a quel punto dovete subito versarlo nel recipiente che avrete preparato (ecco il perché di tanta cura), badando che il fondo ne sia tutto coperto.
In una pentola abbastanza profonda (il composto si gonfia all'ebollizione) mescolate la bustina di torta gel con lo zucchero e sciogliteli con un po' di latte senza fare grumi, aggiungete tutto il latte, tutta la panna e ponete il recipiente sul fuoco (medio). Sempre mescolando portate il composto ad ebollizione, spegnete il fuoco e continuate a mescolare per due minuti, versate il tutto sul caramello, aspettate che si freddi, quindi, con molta cura, ponetelo in frigorifero per almeno dodici ore prima di servirlo. Quando sarà freddo potrete capovolgerlo in un piatto da portata in grado di contenere la parte liquida del caramello.
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LATTE, SOLE E CEREALI
:::Francesca primavera:::
Oggi è una giornata di sole. E' maggio. E' domenica. Io e mio fratello siamo svegliati dalla voce di mio papà che canta una canzone. Mi alzo e vado in cucina, lui è di spalle, intento a preparare la colazione, il suo corpo sembra leggero e continua a cantare. Avverte la mia presenza e si volta. - Che ne dici se oggi andiamo al mare?-. Io sorrido. Mi piace il mare, mi piace fare il bagno quando ci sono i cavalloni e mia mamma, per la paura, rimane a riva e ci controlla fino a quando non usciamo dall'acqua. Tra qualche giorno compio dieci anni. Chissà se mi hanno già comprato il regalo, e se lo hanno nascosto da qualche parte. Mio fratello, assonnato, entra in cucina, anche a lui viene fatta la stessa domanda - Tommy, ti andrebbe di andare al mare?-. Intanto i raggi di sole entrano nelle tazze della colazione, prendo i cereali, il latte e mi siedo. Adoro i cereali, quando andiamo al supermercato ne compriamo di tutti i tipi. Mio fratello ha quattro anni meno di me. Lui non ha paura di nulla, neanche dei cavalloni quando il mare è agitato. Mio padre sta cucinando delle uova, dice che dobbiamo fare una colazione super, così poi non abbiamo fame appena arriviamo. A me le uova non piacciono, ma stamattina le mangio, mio papà è di buon umore ed io non voglio rovinare tutto. Entra la mamma, è bella anche di mattina appena alzata. Anche mio papà è bello, ma lei ha qualcosa in più, è elegante come un cigno, e ha un sorriso che farebbe arrossire il mondo intero. Mio papà la bacia sulla bocca, io e mio fratello ci guardiamo, mia mamma si scosta dall’abbraccio e ci indica. Ma mio papà non sembra esserne infastidito. Mamma prepara del pane tostato, mi guarda e mi fa l'occhiolino. Lo fa sempre, e mi fa sentire la sua preferita. Ci chiede - vostro padre vi ha detto che oggi si va al mare?-. Capisco allora che anche mia mamma è d'accordo, e il mio cuore batte fiducioso, se anche mia mamma è allegra, oggi sarà una bellissima giornata. Tommaso comincia a fare la lista delle
cose che dobbiamo portare, secchiello, palette, formine, palla. Mio papà gli dice che può portare quello che vuole ma non deve metterci troppo tempo. Tommaso scatta in piedi, ma mia mamma gli dice che prima deve finire la colazione. Mio papà non si siede, è scattante e energico, apre e chiude il frigo, accende il gas, prepara il caffé, non si ferma un minuto. Mia mamma mi chiede se abbiamo dormito bene, io le dico di si, vorrei aggiungere che mi sono addormentata subito e che sono felice perché ieri sera non li ho sentiti gridare. Ma sto zitta, altrimenti scoprirebbe che quando la sera litigano, io ascolto tutto. Oggi la casa sembra tutta gialla, i cereali nella mia tazza brillano, e io vorrei che fosse sempre mattina. Mia mamma dice a mio papà di sedersi con noi, ma lui non risponde, continua a canticchiare qualcosa ma non riesco a capirne le parole. Tommaso mangia velocissimo, io no, mi godo l'attesa di questa giornata. Domani, racconterò alla mia amica Silvia di quanto ci siamo divertiti al mare, dei castelli che abbiamo costruito e dell'aquilone che abbiamo fatto volare alto nel cielo. - Papà, noi lo abbiamo un aquilone?-. Lui si gira e dice di no, ma promette che se li vendono sulla spiaggia ne compriamo uno. Stamattina sembra tutto semplice, per ogni domanda c'è una risposta giusta. Ieri la maestra ha detto che quando arriva la bella stagione tutti siamo più positivi. Forse deve essere questo. Osservo bene mio papà, oggi non sembra neanche avere quella vena tra l'occhio e la fronte, che quando si arrabbia, comincia a pulsare e diventa enorme. Quando grida forte, io prego che quella vena non scoppi, altrimenti poi lui muore. La scatola dei cereali ha un disegno buffo, c'è una tazza al centro, con un cucchiaio enorme, dei cereali cadono dall'alto e quando toccano il fondo della ciotola si trasformano in raggi di sole. Tommy si alza e dice che va a preparasi, io spero non suoni nessun telefono, né la porta, né nulla che possa far cambiare idea a mio papà. Spero che il sole rimanga alto e che non arrivino le nuvole. Spero che lui continui a cantare per tutta la durata del viaggio e spero che ogni tanto mia mamma in macchina si volti e mi faccia l'occhiolino. Così domani potrò raccontare tutto, senza dover inventare qualcosa che non ho fatto. Mi odio quando dico bugie, ma la verità non la posso dire. Non mi va che tutti sappiano che loro litigano sempre, che a volte vedo mamma piangere e che mio papà sbatte sempre le porte. Sicuramente, cose così accadono in tutte le famiglie, e poi sono sicura che da oggi andrà tutto bene. Mio papà è di un azzurro splendente, e mia mamma di un verde smeraldo. Lei si alza e comincia a mettere a posto, il suo sguardo non è spento come al solito, sembra una ragazzina. Forse anche lei sa. Anche lei sa che da oggi andrà tutto bene. Finisco gli ultimi cereali rimasti dentro la tazza. Vedo la mia faccia riflessa deforme sul cucchiaio e mi viene da ridere. Mi faccio le boccacce.
− Driin.
Suona il telefono. Non ci voleva. Noi vogliamo andare al mare oggi. Non facciamo scherzi. Smetti di suonare.
− Driinn-.
Secondo squillo. Smetti di suonare. Ti prego. Ti prego. Io voglio fare il più grande castello di sabbia del mondo. Mio papà cerca il cellulare ma non lo trova. Perfetto.
− Driinnn-.
Terzo squillo.
-Drinnnnn-.
Quarto squillo. Ma perché insistono? Perché non si fanno gli affari loro?
Mio papà si sta innervosendo. - Ma dove diavolo sta? C'è sempre tutto questo casino qui-. Lo trova. Ho ancora una possibilità che smetta di suonare. Mi concentro. Smetti. Smetti. Smetti. Apro gli occhi, lui è in piedi davanti alla finestra. Un raggio di sole, colora i suoi capelli di bianco. Preme il tasto interrompendo il quinto squillo. Non volendo faccio cadere la scatola dei cereali a terra. Li guardo, penso all'aquilone, mi sento addosso tutto il peso dello sguardo sprezzante di mio papà mentre esclama un - Pronto? -.
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:::Cristina Corzetto:::
Ho visto cavalli alati trasformarsi in nuvole
e nuvole tradire la propria strada
quasi a volersi fermare.
Occhi di cristallo a guardarmi come se fossi aria
Bambole di pezza della mia infanzia
finite nella discarica a cielo aperto
travolte da altra immondizia abbandonata.
Ho visto cavalli alati cercarti per poi ritornare
a mani vuote e le navi su quel foglio
affondare
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Stella
:::Luisa Lorenzoni:::
Il tempo è insaziabile quando si tratta di divorare vecchie fotografie. Attacca a mangiucchiarle dagli angoli, le mastica lentamente, succhiandone la polpa come da un crostaceo. Indugia un momento trovandosi tra i denti lembi di stoffa, tese inamidate di cappellini, insidiosi nodi di cravatte. E poi continua inesausto, avanzando verso il centro dell’immagine, verso mani incrociate su grembi, verso teste ricciute di bambini persuasi alla posa con promesse mendaci o minacce di sberle, verso bianche dita che reggono bei sigari spenti, mollemente appoggiate a piani intarsiati di tavoli da fumo, frivoli capricci dettati dall’estro artistico del fotografo.
Stella guarda la stessa foto da più di dieci minuti. Il caffè ribolle sul fornello a gas e già manda odore di bruciato. Tiene la fotografia tra indice e pollice, giocando inconsciamente coi polpastrelli sul bordo dentellato, simile a quello di un francobollo. Non saprebbe decifrarla, se non fosse stampata nella sua mente prima che su quel pezzetto di carta. Si è conservata solo la parte centrale, un piccolo ovale superstite che ha resistito tenacemente alla corrosione. Vi si distinguono due mani, una di uomo, appoggiata su una spalla di camicia col bavero ricamato. Intrecciata a quella, una mano più piccola, di donna, orlata da un polsino ricamato col motivo del colletto. Il nodo delle dieci dita è sigillato dalla doppia fascetta delle due fedi nuziali vicine. Stella guarda quel residuo di ritratto, ma vede l’immagine completa. Come se guardasse dal buco della serratura il particolare di una stanza che conosce nella sua interezza.
16 maggio 1950, Vittorio compie un mese, le sue guance cominciano finalmente a riempirsi. Sulla fronte ha ancora tracce dell’olio battesimale con cui il prete l’ha segnato. Stella non ha voluto asciugarlo, è il segno di un bacio d’angelo, lascerà che scompaia da sé. Doveva essere battezzato appena nato, perché era troppo piccolo per sopravvivere. Stella si è rifiutata e ha rimandato il battesimo di settimana in settimana, per scaramanzia. Ora è convinta di averlo tenuto in vita con quel trucco. Bruno è sulla soglia di casa, in attesa del fotografo che ritarda. Gliel’aveva giurato stringendole forte un braccio:”Lo battezziamo quando compie un mese e poi ci facciamo fare il ritratto, tutti e tre insieme”. Il fotografo arriva e comincia a posizionare l’attrezzatura, mette una sedia al centro della stanza, Stella si siede con Vittorio sul seno. Bruno in piedi al suo fianco le mette una mano sulla spalla, lei intreccia le dita alle sue, guardano un attimo il bambino e poi si mettono in posa. Poco prima dello scatto, hanno gli occhi lucidi.
Il suono del campanello le arriva come uno schiaffo. La foto le cade di mano e sente l’odore aspro della caffettiera. Spegne il gas, apre la porta. Il volontario della casa di riposo le porge il braccio, come al solito. Non questa mattina. Stella ha deciso di rimanere a casa, ha molte cose da sistemare, dice. Il volontario si affaccia nella stanza, sul pavimento scatole da scarpe in fila, sembrano vagoni di un treno, i coperchi rovesciati, vecchie fotografie sparse ovunque, come passeggeri feriti nel deragliamento. Dubbioso, dondola un paio di volte sulle gambe, annusa la puzza di caffè bruciato, insiste per farla uscire. Stella lo rassicura, non ha cercato di uccidersi col gas, voleva solo un caffè forte. Il volontario ride, l’avverte che più tardi le telefoneranno. Va bene. Se ne va, con gran fruscio della divisa arancione acetata.
A chi le chiede come faccia a vivere da sola a ottant’anni, Stella risponde che la sua casa è piena di gente. Gente riposta nei cassetti, legata con spago dentro buste da lettere ingiallite, chiusa con fibbie in porta documenti di pelle, impilata in ordinati mazzetti all’interno di scatole da scarpe. Familiari, conoscenti e un numero imprecisato di sconosciuti. Un esercito di persone ricoverato nei più intimi nascondigli della casa. A loro Stella dedica ogni sua serata. Prima di andare a dormire le schiera tutte davanti a sé, come un bambino con i suoi soldatini. Le divide in plotoni, in base ai criteri che l’ispirazione le suggerisce: il tipo di vestito, l’espressione del volto, la natura riccia o liscia delle capigliature. Per ognuno ha una parola, un consiglio mai dato. Per qualcuno amare domande, destinate a rimanere senza risposta.
Oggi non hanno avuto pazienza di aspettare l’uscita serale. Stella stava scendendo dal letto nel suo solito modo lento e fluido, al rallentatore, messo a punto in tanti anni di reumatismi progressivi. Le ha sentite distintamente quando si è fermata nella posizione seduta e la rete ha smesso di cigolare. Battevano contro i cassetti, facevano frusciare la carta delle buste. Ha pensato a certe scene di detenuti che suonano le sbarre delle celle con i cucchiai e ha provato una gran pena per quei ritratti in gabbia, schiacciati come sardine e costretti ad un’intima vicinanza con altri visi e mezzibusti che forse in vita nemmeno avevano conosciuto. O che avevano odiato ferocemente. Ha infilato le ciabatte ed è andata ad aprire ogni prigione della casa. Ha sfilato i cassetti dai comodini, ha tirato fuori le scatole e le ha rovesciate per terra. Ha slacciato fibbie, ha sciolto nodi di spago. Allora è tornato il silenzio, quello esclusivo delle case delle persone vecchie e sole. Stella ha camminato su quel prato di fotografie attenta a non calpestare neanche un fiore e passando le sentiva sussurrare, come invitati spazientiti che attendono la sposa sul sagrato della chiesa. “Vengo”, ha promesso, “il tempo di un caffè”. Ha messo la moka sul fuoco ed ha appoggiato il fianco all’ acquaio di marmo, trasalendo lievemente per la sensazione di freddo. In quel momento ha notato la fotografia in bilico sul bordo di una scatola. Dondolava leggermente sulla diagonale, con movimento alterno degli angoli opposti. Stella l’ha raccolta e l’ha sollevata piano. Mentre l’avvicinava al viso ha riconosciuto nell’unica parte dell’immagine sopravvissuta quel che restava della sua famiglia.
Ed eccola ancora lì, a contemplare quella misera macchietta rimasta intatta in mezzo al nulla, con le labbra piegate dalla tristezza, senza riuscire a darsi pace. Non appena i passi del volontario si sono spenti in fondo alle scale, ha raccolto la fotografia e l’ha sistemata al centro del tavolo. Spera di scoprire un’improbabile angolatura da cui la luce sappia piovere in modo clemente, restituendo alla vista i particolari dissolti in un’informe macchia giallastra. E intanto si chiede perché tra le tante fotografie che possiede, il tempo abbia deciso di mangiarsi proprio quella, unico ricordo di loro tre insieme.
A Stella non sembra di avere avuto un figlio e un marito, ma due splendidi amici. La vita glieli ha donati insieme e insieme glieli ha tolti. Vittorio per un incidente, Bruno per un attacco di cuore, pochi giorni dopo. Dire che la vita di Stella si era fermata, non è esatto. In effetti essa aveva iniziato un curioso processo involutivo da ali di farfalla che si accartocciano e tornano ad essere parte indistinta di un bozzolo. Dopo i funerali era impazzita. Ogni giorno lavava i panni dei due morti e li stendeva in cortile, ai rami del ciliegio. Di notte vagava per il paese urlando i loro nomi. Una mattina la trovarono al cimitero, stesa tra le due tombe, le unghie rotte e le mani tagliate per aver scavato la terra. La riaccompagnarono a casa, le dissero che era l’ora di finirla, che aveva il dovere di andare avanti e di rifarsi una vita. La gente ha sempre buoni consigli da dare.
Stella mise i vestiti del marito e del figlio in un baule che trascinò in cantina. Fu un gesto doloroso e magico, segnò l’inizio della guarigione. Trovò lavoro come domestica in casa di un medico di mezza età rimasto anche lui vedovo da poco. Il lutto comune li legò fin dal primo giorno, quando si incrociarono nell’atrio, lei mentre usciva al termine del lavoro, lui di ritorno dall’ambulatorio, entrambi rassegnati a tornare nelle proprie case vuote. Rimasero seduti in salotto fino a tardi, a piangere lacrime che contenevano lo stesso grado di sale. Dopo un mese si sposarono. In paese fu scandalo. Dissero che si erano consolati presto e che erano amanti già da tempo. Stella fu accusata di immoralità ed opportunismo. Presero a chiamarla “la vedova della consolazione”, storpiando con sarcasmo blasfemo il nome della madonna del luogo. La gente ha sempre sentenze eque da sputare.
Stella non capiva perché le stesse persone che l’avevano spronata a reagire, adesso la evitassero come un’appestata. Restò sola col suo secondo marito, senza più amicizie, relegata in un ghetto ideale. Fu allora che si rifugiò nelle fotografie. A quelle di famiglia cominciò ad aggiungerne decine di altre, che si procurava negli studi dei fotografi, rovistando tra le montagne di immagini di prova destinate ad essere buttate. Erano compaesani, conoscenti, sconosciuti. Visi, mezzibusti, figure intere, gruppi, che giorno per giorno invadevano la casa, colmando il vuoto di una vita senza più relazioni umane. Suo marito tentava di farla desistere da quella mania, ma era costretto a capitolare di fronte al rifiuto di Stella di separarsi dagli unici esseri umani che le fosse consentito avere attorno. Quando lui usciva di casa, li sparpagliava qua e là, sulle sedie, sui mobili, negli angoli degli specchi. Con loro parlava mentre sbrigava le faccende, mentre cucinava, mentre scriveva lettere che non avrebbe mai spedito. All’avvicinarsi dell’ora del pranzo, li raccoglieva con fare autoritario, come una maestra con gli scolari a fine ricreazione, e li rimetteva nelle scatole. Un giorno che il marito tornò in anticipo, la sorprese a ridere fino alle lacrime mentre raccontava una vecchia storiella di paese ad un pubblico silente di ritratti. Una tragicomica espressione di sorpresa gli spalancò la bocca in un’enorme O muta. Il matrimonio finì poche settimane dopo e Stella uscì di casa con la stessa piccola valigia di quando vi era entrata, più una ventina di scatole di cartone chiuse col nastro adesivo.
Ci mette un po’ prima di rendersi conto che il telefono sta squillando. Si allontana dal tavolo a malincuore, poi torna indietro e prende la fotografia, la infila in una manica, per preservarla da un’ulteriore usura. Alza la cornetta sillabando: ”Sono momentaneamente morta, lasciate un messaggio”. La segretaria della casa di riposo non è in vena di scherzi, la rimprovera energicamente per l’assenza ingiustificata, per quello che definisce “capriccio improvviso di fare di testa sua”. Stella ha sentito abbastanza. “Mi scusi, ho gente per casa, devo andare” e riattacca. Al prossimo colloquio con l’assistente sociale rinuncerà al servizio di assistenza presso l’Istituto per anziani. Non ha nessuna intenzione di rendere conto delle proprie decisioni, siano esse capricci o meno. Ha smesso di farlo da tanto, da quando ha lasciato il paese con una valigia e venti scatole di cartone. Durante il viaggio sul pullman che la portava via, aveva pianto lacrime di sollievo. Si era fermata in una città che non conosceva, aveva imparato un lavoro che non sapeva fare, aveva preso in affitto la casa che adesso era sua. Mentre il padrone gliela mostrava, si era preoccupata soltanto che ci fossero cassetti e ripostigli sufficienti a contenere la sua insolita collezione. Il giorno in cui era venuta a viverci, l’aveva trascorso sistemando le fotografie e parlando con loro di una nuova vita. Stanno insieme da più di cinquant’anni. Cinquant’anni in cui Stella ha rifiutato di fidarsi di altri volti che non fossero quelli impressi su pellicola.
Sfila la foto dalla manica, ritaglia con le forbici l’ovale intatto, lo chiude in un ciondolo, lo bacia, lo appende alla catenina che porta al collo. Lo sottrae così all’osceno banchetto del tempo. Le altre fotografie la reclamano a gran voce, gelose di tante attenzioni. Chiude a chiave la porta e stacca il cavo del telefono. Certi momenti non ammettono interferenze.